Al di là delle interpretazioni che si possono dare di
The Invisibles, seminale opus magnum di Grant Morrison, conclusosi circa 11 anni fa (ad esempio
questa e
questa, di segno indubbiamente opposto), un dato è certo.
Qualunque giudizio i recensori possano dare di
The Invisibles, infatti, rimane il fatto che, nell’analisi dell’opera, non è possibile prescindere dal vissuto del recensore.
Ovvero, per essere più precisi, non è possibile parlare del fumetto senza esaminare la portata dell’effetto che questo ha avuto sulla vita della persona che ne parla, quasi che
The Invisibles fosse un
benchmark con cui confrontarsi per descrivere istantanee ormai sbiadite della propria vita.
E, badate, non si tratta di un generico effetto “
The Invisibles mi ha cambiato la vita”, chiaramente applicabile a un certo numero di fumetti capolavoro. In questo senso, Peter Milligan mi ha raccontato dei suoi imbarazzati silenzi e delle sue occhiate sospettose nei confronti delle persone che, all’inizio degli anni ‘90, gli dicevano: “
Enigma changed my life”, da lui ritenute possibilmente gay (e sospettate di ritenere che Milligan fosse gay a sua volta)…
No, dicevamo, per
The Invisibles il discorso è più sfaccettato (ipersfaccettato, se mi consentite il gioco di parole). Parlare di
The Invisibles significa
fotografare come (e quando) il fumetto abbia influenzato la vita del lettore (io, ad esempio, ricordo con chiarezza e affetto che più o meno nello stesso periodo del Volume 3, sono andato alla base di Porton Down, esattamente come Dane e Lord Fanny, ed esattamente come loro, portavo la spilletta bianca).
Senza entrare nel dettaglio di alcune goffe semplificazioni/sviste da parte del pezzo di
onereed.blogspot.com (ovviamente nell’analisi di
The Invisibles non si può prescindere dal finale della serie, per esempio) o di alcune conclusioni dubbie del pezzo su
TCJ.com (una per tutte, l’era dei fumetti politici chiusa da
The Ultimates?), è interessante notare come i due autori, nel parlare in maniera certamente intelligente e stimolante di aspetti differenti del fumetto (e dando valutazioni certamente diverse sul Morrison di
The Invisibles), scelgano essenzialmente lo stesso approccio: raccontare la propria giovinezza, la risonanza degli Invisibili nei confronti delle loro convinzioni/preferenze e il successivo distacco nei confronti del volume 1 (a torto identificato come il più rappresentativo della serie, per altro).
Lo stesso, giusto per citare un fumetto già chiamato in causa, dubito che fra dieci anni si potrà fare per
The Ultimates o per
The Authority…
Ho letto tantissime recensioni di
Watchmen (la stragrande maggioranza positive), ma queste, invariabilmente, vertono sull’opera stessa: il recensore non può che raccontare l’opera, non sé stesso. E così si potrebbe dire di tanti altri capolavori italiani, francesi, giapponesi.
Nel parlare di
Love & Rockets, si evidenzia il melting pot culturale degli Hernandez, non di chi ne parla. L’eventuale “vicinanza spirituale” è implicita, mai esplicitata.
Ovviamente il paragone con
Watchmen (o con il mondo dell’
Incal o con
Sandman, per citare altri mondi completamente formati nella testa dell’autore e sulla pagina finale) è il più appropriato, in quanto proprio alla base si vedono le differenze di approccio e di risultati fra i due sceneggiatori, Grant Morrison e Alan Moore.
Laddove Moore ha lavorato sulla perfezione formale del fumetto (qualunque cosa questo voglia dire), è invece evidente che Morrison ha cercato qualcosa di diverso.
Al di là di tutti i discorsi su magia, ipersigillo etc., è ovvio che l’effetto di
The Invisibles sulla vita dei propri lettori è diverso da quello di qualunque altro fumetto.
Questa è magia e, al di là di qualunque cosa si possa scrivere in proposito, resta il più grande trionfo del Morrison degli
Invisibles.
A The Invisibles è dedicata il capitolo 5 di Grant Morrison: All Star