“If this book has made any point clear, I hope it’s that things don’t have to be real to be true. Or vice versa.” (Grant Morrison)
Supergods, dopo i capitoli iniziali che si dispiegano in maniera “classica” come storia del fumetto di supereroi, diventa un oggetto curioso, inglobando crescenti dosi di autobiografia e di meditazione filosofica sulle implicazioni dell’esistenza stessa dei supereroi. I punti di forza e le debolezze di tale approccio sono chiaramente dovuti alla stessa causa: il sincretismo di tre modalità di scrittura (non solo potenzialmente) diverse.
In questo senso, Morrison, a un occhio esperto, non si pone scrupoli di fare pesantemente “editing” della storia del comic book supereroistico, mettendo in luce in maniera a volte non filologicamente perfetta passaggi evolutivi del mezzo che, a un esame “accademico” potrebbero sembrare forzati o quantomeno alquanto semplificati. E se ciò è spiegato nelle ultime pagine del libro come risultato della necessità di “sgonfiare” un libro già impressionante, la sostanza non cambia.
Allo stesso modo, Morrison pare riscrivere la propria vita “dall’esterno”, baloccandosi giocosamente col mito personale (auto?)creatosi nel corso degli anni. Ad esempio, mi pare significativo che i passi biografici di Supergods non aggiungano praticamente nulla di nuovo a quanto leggibile della vita adulta dello sceneggiatore, per dire, su Grant Morrison: All Star, che pure ha un focus totalmente diverso. Solo nelle ultime trenta pagine, nella dimensione intimistica del racconto degli ultimi giorni del padre, emerge, seppur filtrato dal tono elegiaco, l’uomo Grant Morrison.
Ugualmente, nella personale revisione del “mito” fumettistico, intelligente e caustica allo stesso tempo, si percepisce una indubbia “volontà di potenza” (per altro Supergods è aperto, in maniera appropriata ma prevedibile, da una celebre citazione di Nietszche sullo übermensch) non del tutto aliena ad antipatie e piccole ossessioni. Ad esempio, se The League of Extraordinary Gentlemen è lodata, invece la perfezione formale e “realistica” di Watchmen viene (giustamente) demolita, in uno dei passaggi più interessanti del libro. Una dose extra di veleno viene riservata al Wanted dell’ex-amico Mark Millar, con un’analisi spietata che non può lasciare indifferenti per la lucidità e la pertinenza.
Eppure, a ben guardare, è tutto molto meno semplice di quanto sembrerebbe: se Morrison ri-compone la propria biografia in maniera apparentemente arbitraria, tutto ciò, seppure a scapito di un ben precisato realismo, non falsa la “verità” di fondo. Lo scozzese fa dei tagli narrativi molto “da sceneggiatore”, lasciando momenti meno importanti (e soprattutto meno “mitici”) fuori dalla propria epica personale, ma lo fa in maniera funzionale a quello che il lettore deve decidere se sia semplicemente culto della personalità o invece una sorta di “ipertesi”, nella stessa maniera di tutte quelle “working hypotheses” (magia, viaggi temporali, timewave zero, ipotesi di Sehket) che punteggiano suggestivamente ed estesamente le 423 (più elenchi vari) pagine di Supergods.
E se, da una parte, Morrison appare come una superstar sicura di sé (in alcuni momenti l’autocompiacimento trasborda, oggettivamente: ma è il Morrison-King Mob che parla), dall’altra non manca mai di mettere in mostra un lato (auto)analitico molto sviluppato e onesto, non dimenticando mai le proprie insicurezze e mancanze, spesso più come persona che come autore.
Ma è ovvio: stiamo parlando di una biografia supereroistica, dove la ri-costruzione del mondo necessariamente deve seguire le regole dell’autore-protagonista. Un esempio: la sorella di Morrison, Leigh, nota stilista fashion di successo diventata anche decoratrice d’interni, viene nominata una sola volta e non per nome: evidentemente il suo ruolo non è importante, nelle “origini segrete” dell’autore. Incidentalmente, la maggior parte della vita di Morrison sembra un solitario solipsismo, come una sorta di Arkham Asylum personale da cui Morrison esce in maniera definitiva solo quando incontra la moglie Kristan.
A questo punto (della lettura), Morrison è diventato veramente un personaggio di sé stesso. Il Morrison “vero”, che guarda caso non fa capolino da nessun social network o piattaforma digitale (oggi in qualche maniera eco e indice di una miserabile presenza “reale”), non ha importanza. Quello che ha importanza, invece, è la “fiction suit” che Morrison deve indossare per proporsi, egli stesso, come Idea.
Tanto meglio se come Idea immortale qual è quella dei supereroi, indomabile e inestinguibile fiamma che rifiuta di estinguersi. E come l’idea dei supereroi, Morrison segue quel cammino che passa per “l’oscura notte dell’anima”, arrivando finalmente alla maturità (che diventa in senso lato “etica”) dopo il matrimonio.
In questo senso, Morrison non è all’oscuro della semplicità morale (e moralistica) caratteristica di alcune delle storie di supereroi, così come della mancanza di sfumature di grigio (anche nei casi più sofisticati: nel libro non mancano complimenti ad amici e rivali che hanno giocato bene le proprie carte come sceneggiatori di supereroi), della costruzione psicologica traballante di molte sceneggiature supereroistiche, dai primi giorni fino ad oggi. Semplicemente, non le giudica secondo i parametri del “realismo”, che, se mai ci fosse bisogno di dirlo, è superato e inutile (e per questo lode – indiretta e obliqua, come sempre – ad Alan Moore, che mostrò a suo tempo, con Marvelman e Watchmen, che la spinta “realistica” va solo in due direzioni, a loro modo anche affascinanti, ma che portano solo e semplicemente a un vicolo chiuso).
Per Morrison, è invece importante capire, attraverso l’esame di tutte le mode e le sghembe, cicliche reinvenzioni che ne cementano il legame con lo zeitgeist (in un eterno ritorno che ogni volta aumenta la pregnanza dell’Idea), quale sia la dimensione vera dei proteiformi supereroi e quali direzioni rimangano inesplorate per restare fedeli all’idea primigenia (e, inutile dirlo, perfetta). Il mondo 2-D dei fumetti, certamente non scevro da contraddizioni e limitazioni (che spesso diventano addirittura punti di forza), infatti, evoca in maniera così potente quello 3-D in cui viviamo da fare venire all’autore del libro (e ai lettori) il dubbio se noi stessi non siamo solo il costrutto semplificato di entità multidimensionali (quell’Unimente pentadimensionale apparso in The Invisibles che rimanda indirettamente al nirvaniano “All in all is what we all are”). In questo senso, il comic book non è altro che lo specchio “frattale” del mondo, e perpetua ancora una volta quell’ “as above, so below” che sembra il punto focale di tutta l’opera di Morrison, e che Supergods ripropone in maniera splendidamente simmetrica (guizzi e mancanze inclusi).
Lo scrittore, trasformandosi in Idea in maniera opposta a come fece Ragged Robin in The Invisibles, diventa tramite il libro (e quindi tramite la propria opera) “meme” invincibile quanto l’indistruttibile idea dell’eroe super originale.
Ma la cosa, ancora una volta, non ha solo il senso di “colossale masturbazione artistica” dell’ego di Morrison (per parafrasare il musicista Tricky a proposito di Peter Greenaway). Il libro, tramite i supereroi, propone un insieme di ricette pratiche per uscire dall’impasse del cinismo moderno che, finora con successo, sta infettando il mondo (sempre tramite il potere delle storie, che Pico della Mirandola vide, in maniera esatta, come il modo di cambiare la realtà). In questo senso, oggi più che mai c’è bisogno di Superdei che ci mostrino la strada.
Semmai, e la cosa emerge dolorosamente fra le righe, il problema è capire se sia ancora oggi il comic book (e non il film, per esempio) il miglior veicolo per l’Idea Supereroistica.
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